Come funziona l'HIV?
La patogenesi dell'HIV è stata studiata in maniera estensiva per ormai più di 25 anni, e non è tuttavia ancora perfettamente compresa. I meccanismi patogenici dell'HIV sono estremamente complessi e multifattoriali, a volte perfino paradossali.
Ad esempio, l'HIV provoca un'ingente attivazione anomala nel sistema immunitario, e contemporaneamente una chiara immunodeficienza nello stesso individuo.
Il primo passo per comprendere l'HIV è arrivato nel 1984, quando è stato provato al di là di ogni ragionevole dubbio che il recettore principale del virus era la glicoproteina CD4, una proteina che si trova nella membrana dei linfociti (globuli bianchi) T helper, che non solo ammazzano virus e cellule tumorali, ma hanno una funzione di regolazione delle linfochinine, proteine che fanno svariate cose, tra cui attirare le cellule del sistema immunitario verso le zone infette.
Sfortunatamente, almeno fino agli anni novanta, gran parte degli altri cofattori non erano sufficientemente compresi, per quanto fosse chiaro che l'HIV avesse bisogno di una grande quantità di fattori per infettare le cellule. Nel 2003 però, si osservo come altri recettori sul linfocità T helper, il CXCR4, che consente al linfocita di capire dove andare per trovare l'infezione da colpire, e il CCR5, con una funzione simile al CXCR4, erano i luoghi di "ingresso" preferiti nel virus all'interno della cellula. In vitro, si riuscì a vedere che se i ligandi che normalmente occupano quei recettori sono presenti in quantità sufficiente, l'HIV non riesce a sfruttarli per entrare nel linfocita. Erano appena stati scoperti gli inibitori di fusione, uno degli "ingredienti" dei "cocktail" retrovirali più efficaci che abbiamo ancora oggi (Nonché un meraviglioso esempio di come la ricerca di base possa portare ad applicazioni pratiche inimmaginabili: i recettori sono stati studiati a fondo per la prima volta con uno studio sull'evoluzione del sistema immunitario).
Tuttavia l'HIV è un virus subdolo e altamente mutabile. Non solo non usa esclusivamente quei recettori, e quindi gli inibitori di fusione non erano, da soli, in grado di fermare la diffusione dell'infezione, ma di fronte alla pressione selettiva di queste tipo medicine l'HIV avrebbe potuto facilmente evolversi trovando vie alternative. Per di più, non risolvevano il problema della presenza dell'HIV nel corpo dell'individuo, ma tentavano di inibire la sua riproduzione e diffusione prevenendo l'AIDS.
Oggi si parla di varianti sinciziali (che sfruttano il CXCR4) e non sinciziali (che sfruttano altri cofattori) proprio perché sfruttando gli inibitori di fusione abbiamo colpito efficacemente la prima variante, ma aiutato la diffusione della seconda.
Sempre negli anni 90', intanto, si scoprì come il tessuto linfoide non solo era l'obiettivo preferito dell'infezione da HIV, ma anche la sua "riserva". Diventò chiaro che l'HIV si replicava a ritmi diversi nel tessuto linfoide indipendentemente dalla salute del paziente; Il ritmo degenerativo dell'HIV non è compreso perfettamente, ma già ai tempi era chiaro che di fronte ad un infezione di HIV l'insorgere dell'AIDS era sostanzialmente inevitabile.
Contemporaneamente, l'invenzione di nuove tecniche per misurare precisamente piccole quantità di acidi nucleici, necessarie per imprese di genetica come il Progetto Genoma Umano, aveva permesso finalmente una quantificazione precisa dell'RNA virale, e permise di migliorare la nostra comprensione delle relazioni tra quantità di virus, risposta immunitaria, stato dei linfociti T, e risposta alle terapie.
(Quest'ultimo paragrafo presuppone che abbiate una comprensione almeno elementare di come funziona un virus generico. Se non l'avete, beh, forse è il caso che alzate il naso dalla gazzetta dello sport e andate a informarvi su qualcosa di più fondamentalmente utile dei peli del buco del culo del vostro giocatore preferito)
Finalmente si poteva misurare in maniera semplice e chiara quanto una terapia avesse effetto. E grazie ad un evoluzione di quelle stesse tecniche che oggi siamo in grado di stabilire qual'è la terapia più adatta nei vari casi.
Poco prima di tutto questo, da ricerche principalmente svolte a trovare una cura per il cancro, saltarono fuori gli Inibitori di Trascrittasi Inversa. Un farmaco, l'AZT, sviluppato come chemioterapico per il cancro si dimostrò sorprendentemente molto più efficace contro l'HIV: nei primi anni 90 divento la prima terapia accessibile a tutti. Come dice il nome della classe a cui appartiene, il farmaco inibisce la trascrittasi inversa, un enzima fondamentale per la riproduzione del virus.
Quando l'HIV infetta una cellula, copia il suo patrimonio genetico virale (Che è RNA, singolo filamento) all'interno del genoma della cellula (La classica doppia elica di Watson & Crick), in particolari siti dei cromosomi, che poi vengono letti dalla cellula e permettono la produzione delle copie virali. L'inibitore blocca l'enzima prima che possa completare la sintesi della doppia elica di DNA virale, impedendo la progressione dell'infezione. Questo è il concetto fondamentale alla base di tutti gli inibitori di trascrittasi, che sono molti e bloccano particolari passi nel processo sfruttando molteplici meccanismi: nelle terapie moderne, molteplici inibitori diversi sono combinati in base al carico virale per garantire la massima efficacia.
Con le prime combinazioni di RTI (reverse transcriptase inhibitors), i risultati sembravano essere eccezionali: l'RNA virale non era più rilevabile nel sangue del paziente, neanche con le tecniche più moderne di cui ho parlato prima.
Ma, purtroppo, neanche questo era abbastanza. Perfino in pazienti in cui la terapia antiretrovirale aveva reso irrilevabile il virus per più di tre anni, nel momento in cui si smetteva di somministrarle in poche settimane si era al punto di partenza, se non peggio. E gli effetti collaterali dei farmaci non erano certo una passeggiata.
Le riserve nel tessuto linfoide di cui ho parlato prima non riscivano ad essere intaccate da questi farmaci. Ci voleva qualcosa che attaccasse il virus anche dopo che esso era stato tradotto...
E nel giro di pochi anni, questa volta mutuati dalla ricerca sull'epatite virale, arrivarono gli inibitori di proteasi. Dopo che il genoma virale si è copiato dalla versione clandestina che ha inserito nel DNA cellulare, prima di attivarsi deve essere "tagliato" e "ripiegato" nella maniera giusta. Quella che viene copiata a conti fatti è una proteina che si chiama GAG, che contiene tutta una serie di proteine virali in una singola lunga catena polipeptidica lineare. La proteasi, un enzima cellulare, taglia la catena all'altezza di nucleotidi specifici per produrre più proteine virali funzionali.
Gli inibitori di proteasi si legano proprio all'enzima, e gli impediscono di tagliare la GAG e produrre virus. Sono farmaci estremamente potenti e con tantissimi effetti collatarali, ma sono uno dei pochi modi efficaci per evitare che le riserve di HIV tornino attive da un momento all'altro. Inoltre, gli inibitori di proteasi sono ri-mutuati per essere utilizzati nella terapia contro il cancro.
Da ricerche su questo tipo di farmaci, negli ultimissimi anni (2008 i primi test clinici), sono anche stati inventati quelli che vengono definiti "inibitori di maturazione". Si "fingono" proteasi e si legano a determinati siti sulla GAG, impedendogli di essere portata a maturazione venendo tagliuzzata. E' un grosso passo in avanti, ma le Gag tendono a variare molto a seconda della sottospecie di HIV, che evolve molto alla svelta, ed è quindi difficile rendere questo tipo di farmaci efficaci in tutti i casi clinici.
RTI, inibitori di fusione e inibitori di protease costituiscono gli ingredienti fondamentali del cocktail antiretrovirale moderno: si stanno studiando molti farmaci più specifici con queste medesime funzioni, e nuove direzioni farmacologiche.
Oltre agli inibitori di maturazione, di cui ho già parlato, ci sono altri 3 tipi di approcci studiati ormai da qualche anno: gli inibitori di integrazione, gli inibitori di trascrizione, e gli inibitori di denudazione.
Gli inibitori di integrazione sono farmaci antiretrovirali che attancano l'integrasi, l'enzima virale che inserisce il genoma virale all'interno del genoma cellulare. Fermano sostanzialmente il processo un passo prima degli inibitori di trascrittasi inversa, ma i dettagli sono complicati.
Gli inibitori di trascrizione non bloccano la trascrizione in sé del DNA virale, ma una proteina, detta TAT, che è fondamentale per la riproduzione del virus: è questa proteina, infatti, che si assicura che l'HIV venga trascritto interamente, producendo tutte le proteine necessarie alla sua proliferazione. Senza di esso, l'HIV viene riprodotto solo in frammenti, che da soli non sono in grado di infettare altre cellule.
Gli inibitori di denudazione, inizialmente inventati come terapia per attaccare il virus dell'influenza, bloccano il virus dallo scoprire il suo contenuto di acido nucleico dalle proteine che lo incapsulano dopo essere entrato all'interno della membrana cellulare. La denudazione è opera di enzimi proteolitici cellulari: riuscire a bloccarli senza bloccare funzionalità cellulari importanti è difficile, ma non impossibile.
Questa nuova scoperta va a inibire una proteina, la DDX3, che normalmente facilita il trasporto dell'informazione genetica dal nucleo delle cellule (Dove c'è il genoma) al citoplasma (Dove l'informazione viene tradotta in proteine). Anche il genoma virale deve fare questo tragitto per essere tradotto in proteine: inibendo questa proteina, si "imprigiona" nel nucleo l'informazione virale, impedendogli di diventare un virus. Apparentemente questo non intacca altri il metabolismo cellulare in maniera drastica: su questa affermazione sono tuttavia estremamente scettico, almeno fino a quando non vedrò una sperimentazione fattuale e non una modellizzazione informatica.
Quello di attaccare un enzima cellulare è sicuramente una buona idea (E non a caso è la direzione in cui le terapie più recenti si muovono), ma è complicata e sicuramente non è nuova (Come l'articolo lascia intendere.).
Il suo più grande vantaggio, a mio modo di vedere, è che si può applicare a tutto lo spettro dell'HIV, e, funzionando su una proteina cellulare piuttosto che su un enzima virale, garantisce che efficacia sul lunghissimo periodo prima che il virus si evolva e si adatti.
Insomma, per farla breve, è una scoperta di cui essere orgogliosi.
Niente fonti bibliografiche perché l'ho scritto a spanne e ci saranno un sacco di errori, siate clementi.